Fast Fashion: qual è l’impatto che ha la moda sulle risorse idriche?  

Fast fashion

L’industria della moda, in particolare quella del fast fashion ha un impatto significativo sull’ambiente e soprattutto sulle risorse idriche globali. Ogni anno tonnellate di acqua vengono usate per produrre vestiti a basso costo, alimentando un modello di consumo non più sostenibile per il nostro pianeta. 

Ma qual è il vero impatto che ha l’industria della monda sulle risorse idriche? 

Il consumo di acqua nel fast fashion 

Il fast fashion, anche detto “moda veloce” si basa su cicli di produzione rapidi e volumi elevati di indumenti prodotti, il che implica un enorme consumo di acqua. Secondo le stime, per produrre una singola maglietta sono necessari 2.700 litri d’acqua, mentre la produzione di un paio di jeans può richiedere fino a 10.000 litri. Anche i processi di tintura di un capo richiedono migliaia di litri di acqua oltre a sostanze chimiche che contaminano le riserve idriche.   

Inoltre, la maggior parte del cotone mondiale viene coltivato in paesi come la Cina, India, Pakistan e Brasile dove l’acqua dolce è già una risorsa limitata.  

Smaltimento dei rifiuti tessili e inquinamento idrico 

 Il fast fashion ha un impatto devastante sulle risorse idriche, non solo per l’enorme consumo d’acqua richiesto durante la produzione, ma anche per l’inquinamento causato dallo smaltimento inadeguato dei rifiuti tessili.

Gli indumenti accumulati nelle discariche illegali come quelle nel deserto di Atacama e a Dandora, una volta inceneriti rilasciano microfibre sintetiche e sostanze chimiche tossiche che si infiltrano nel terreno, contaminando le falde acquifere e compromettendo la qualità dell’acqua rendendola dannosa per gli ecosistemi locali. Inoltre, l’inquinamento delle risorse idriche può anche ridurre la disponibilità di acqua pulita per l’irrigazione e l’agricoltura, creando ulteriori problemi per le comunità locali e la loro sicurezza alimentare.

Ma in che altro modo si possono rilasciare le microplastiche nell’ambiente?  

L’impatto del lavaggio dei tessuti sintetici 

Gli indumenti del fast fashion sono principalmente composti da poliestere e altri materiali sintetici. Questi sono i primi responsabili delle microplastiche rilasciate nell’ambiente. Si stima che un singolo lavaggio può rilasciare fino a 700.000 microfibre che finiscono negli oceani e successivamente nella catena alimentare. L’industria del fast fashion, basata su prezzi bassi e poca qualità, promuove numerosi primi lavaggi. Di conseguenza, si stima che nei fondali marini siano presenti oltre 14 milioni di tonnellate di microplastiche che danneggiano la salute umana in secondo luogo.  

Soluzioni sostenibili per ridurre l’impatto idrico e ambientale 

Per affrontare l’impatto idrico del fast fashion è fondamentale promuovere alcune soluzioni sostenibili:  

  • Acquisti consapevoli: acquistare meno e puntare su capi di buona qualità, che durano nel tempo e contrastano le logiche della produzione intensiva dell’industria del fast fashion. 
  • Materiali sostenibili: preferire tessuti che richiedono meno acqua durante la produzione come il cotone biologico, il lino o materiali riciclati.  
  • Lavaggi meno frequenti: lavare i capi meno frequentemente e a basse temperature riduce il rilascio di microplastiche dai tessuti. Usare sacchetti per il bucato può aiutare a trattenere le microfibre.  
  • Riciclo e riuso: il riciclo e il riuso dei capi aiuta a ridurre i rifiuti tessili e l’inquinamento delle acque. È bene quindi favorire l’acquisto di capi di seconda mano piuttosto che capi fast fashion.  
  • Ridurre i rifiuti tessili: smaltire correttamente i vestiti ma soprattutto donare quelli che non si utilizzano più, riduce l’accumulo dei rifiuti tessili.  

Ognuno di noi può fare la propria parte per ridurre l’impatto sull’acqua e sull’ambiente. Scegliere una moda sostenibile e consapevole contribuisce a tutelare le risorse idriche per le generazioni future.  

Monitoraggio delle acque reflue: un’arma contro le epidemie 

Acque Reflue

Le acque reflue, spesso viste solo come rifiuti, possono diventare una risorsa preziosa per la prevenzione delle epidemie. Attraverso un monitoraggio attento e sistematico, è possibile rilevare la presenza di agenti patogeni e anticipare la diffusione di malattie. 

Ma come funziona questo processo e perché è così cruciale?  
Scopriamolo insieme. 

Il ruolo delle acque reflue nella salute pubblica 

Le acque reflue contengono tracce di materiali biologici umani, compresi virus e batteri. Analizzando questi campioni, gli scienziati possono rilevare la presenza di agenti patogeni come il SARS-CoV-2, il virus responsabile del COVID-19.  

Questo monitoraggio fornisce dati preziosi che possono essere utilizzati per prevedere e prevenire la diffusione di malattie infettive, offrendo un vantaggio significativo nella gestione della salute pubblica. 

Come vengono monitorate queste acque? Attraverso la raccolta di campioni da impianti di trattamento delle acque o direttamente dalle reti fognarie. Questi campioni vengono poi analizzati in laboratorio per rilevare la presenza di agenti patogeni. La tecnologia utilizzata include la PCR (reazione a catena della polimerasi) per identificare il materiale genetico dei virus. Questo metodo può fornire indicazioni tempestive sull’andamento di una possibile epidemia. 

Vantaggi del monitoraggio delle acque reflue 

Il monitoraggio delle acque reflue offre diversi vantaggi rispetto ai metodi tradizionali di sorveglianza sanitaria. È meno invasivo, in quanto non richiede test individuali su vasta scala, ed è più economico.  

Inoltre, può coprire intere popolazioni, fornendo una visione d’insieme della diffusione di patogeni in una comunità. Questo approccio può identificare focolai emergenti prima che si manifestino sintomi clinici diffusi, permettendo interventi precoci. 

Diversi studi hanno dimostrato l’efficacia del monitoraggio nella prevenzione delle epidemie. Durante la pandemia di COVID-19, ad esempio, molti paesi hanno implementato sistemi di monitoraggio per rilevare la presenza del virus nelle acque reflue.  

Sfide e prospettive future 

Nonostante i numerosi vantaggi, il monitoraggio presenta anche delle sfide. La raccolta e l’analisi dei campioni richiedono infrastrutture e competenze tecniche che non tutti i paesi possiedono. Inoltre, l’interpretazione dei dati può essere complessa e richiede una collaborazione tra diverse discipline. Tuttavia, con l’avanzamento delle tecnologie e la crescente consapevolezza dell’importanza di questo strumento, le prospettive future sono promettenti.

Il cambiamento climatico sta trasformando il colore dei nostri mari: le acque diventano verdi

Acque verdi

Durante il mese di luglio, un fenomeno bizzarro si è verificato lungo le coste del golfo di Napoli: le acque sono diventate verdi. Dietro quello che potrebbe sembrare un evento a sé stante si nascondono, invece, cambiamenti che stanno toccando tutti i nostri oceani.

Ma cosa è avvenuto?

Acque verdi a Napoli: perché?

Quest’estate, lungo le coste tra Beverello e Mergellina, l’acqua ha improvvisamente tramutato il suo colore in verde. Il fenomeno, nella sua apparente stranezza, è in realtà destinato a manifestarsi ben più spesso di quanto potremmo immaginare.

Per spiegare l’evento, i tecnici dell’ARPAC (Agenzia Regionale Protezione Ambientale della Campania), recatisi sul luogo, hanno effettuato un’indagine chimica e biologica dell’acqua.

Dalle analisi è stato possibile escludere una contaminazione da Escherichia coli ed Enterococchi intestinali, che aveva preoccupato le autorità circa i rischi per la salute.

È emersa, invece, la presenza significativa di una microalga non tossica appartenente al phylum Chlorophyta, classe Prasinophyceae, la cui fioritura spiegherebbe la colorazione verde dell’acqua.

A sua volta la proliferazione della microalga in maniera così cospicua e veloce trova le sue cause in una serie di fattori: dalla presenza di nutrienti come azoto e fosforo (caratteristica della zona), alla crescita delle temperature dei mari (superiore a 28°) fino alla concentrazione anomala di clorofilla nei primi strati superficiali delle acque marine.

Questa concentrazione eccessiva di clorofilla, che ha contribuito all’intorbidimento e alla colorazione intensa del mare, è a sua volta dovuta a un aumento della temperatura dell’aria, accompagnato all’intensità della radiazione solare, entrambi causati dall’alta pressione di origine africana che ha impedito il normale idrodinamismo del Golfo, rendendo le acque più stagnanti. Il cambiamento del colore dell’acqua non è però un fenomeno circoscritto al golfo di Napoli. Al contrario, sembra essere un evento di portata internazionale.

Un fenomeno globale: perché?

Uno studio pubblicato sulla rivista Nature ha messo a confronto 20 anni di dati satellitari, dimostrando come il 56% degli oceani abbia, ad oggi, cambiato colore.

La causa rilevata è molto simile a ciò che le analisi dell’ARPAC hanno registrato a luglio sulle coste campane: una maggiore densità e distribuzione del plancton, microrganismi ricchi della già citata clorofilla, dovute a loro volta dal riscaldamento delle acque.

Il colore che solitamente associamo all’oceano è determinato dalla capacità delle molecole dell’acqua di assorbire tutte le tonalità eccetto il blu, per questo motivo se si creano delle barriere sulla superficie del mare, come nel caso del fitoplancton, il colore cambia.

Ad accompagnare questo evento, con il riscaldamento degli oceani, le correnti sempre più irregolari e le acque più stratificate, rendendo complesso per le zone calde e le zone fredde mescolarsi. Ciò implica, a sua volta, una maggiore proliferazione di quelle specie di fitoplancton che nei secoli si sono adattate alle acque calde e, in parallelo, la migrazione o l’estinzione di altre specie.

Ovviamente, accanto al riscaldamento generale delle acque, a influire sulla proliferazione del fitoplancton sono anche gli eventi naturali come El Niño (fenomeno climatico periodico che provoca il riscaldamento delle acque dell’Oceano Pacifico Centro-Meridionale e Orientale tra dicembre e gennaio). Gli effetti a lungo termine di questa diffusione di plancton di dimensioni minori sono ancora difficili da individuare con certezza. Ciò che però sappiamo è che, diminuendo le dimensioni delle alghe, diminuirà anche l’efficacia dell’oceano nell’assorbire le emissioni globali di carbonio.

Acqua e radioattività: come avviene il trattamento della risorsa idrica nel caso di contaminazione?

Dopo l’approvazione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA) al rilascio nell’Oceano Pacifico dell’acqua immagazzinata nella centrale nucleare di Fukushima, si è parlato molto di acqua contaminata e del suo trattamento.

Ma come si contaminano le acque? E quali tecniche si utilizzano per il loro trattamento?

Acqua e sostanze radioattive

La risorsa idrica rappresenta un solvente universale e può interagire con diverse sostanze, comprese quelle radioattive. Quando queste ultime entrano in contatto con l’acqua, possono verificarsi diversi processi: Può accadere che le sostanze si dissolvano diffondano nella soluzione liquida o che queste vengano adsorbite dalla superfice acquosa e, senza che si disciolgano in essa, si leghino alle sue molecole.

In ognuno di questi casi, l’esposizione all’acqua contaminata può avere effetti negativi sulla salute umana e sull’ambiente. Per questo motivo, è fondamentale adottare misure di monitoraggio e controllo per mitigare gli effetti negativi. Inoltre, sono state implementate tecniche di trattamento dell’acqua per rimuovere o ridurre la presenza di sostanze nocive.

Il trattamento delle acque contaminate

Per evitare il rilascio di sostanze radiottive nell’ambiente e garantire una gestione più sicura delle acque contaminate, esistono vari metodi di trattamento che possono essere applicati. Tra questi:

  • Filtrazione – processo che utilizza una barriera fisica, quale filtro o membrana, per separare le particelle solide o le sostanze disciolte presenti nell’acqua. Nel contesto delle sostanze radioattive, la filtrazione può essere utilizzata per rimuovere particelle radioattive o materiali contaminati dall’acqua.
  • Decantazione – processo che sfrutta la differenza di densità tra le particelle solide o le sostanze disciolte e l’acqua. L’acqua contaminata viene lasciata in riposo in un contenitore o serbatoio per un periodo di tempo, permettendo alle particelle più pesanti o alle sostanze radioattive di sedimentare sul fondo. Successivamente, l’acqua chiara viene rimossa dalla parte superiore del contenitore, separandola dalla parte sedimentata contenente le sostanze radioattive
  • Irraggiamento – processo che utilizza adiazioni ionizzanti, come raggi gamma o fasci di elettroni, per distruggere o inattivare sostanze radioattive nell’acqua. Le radiazioni ionizzanti danneggiano il materiale genetico delle particelle radioattive, rendendole inattive o distruggendole completamente.

L’utilizzo di queste tecniche e la sua efficacia può variare a seconda delle caratteristiche specifiche delle sostanze radioattive e dalle condizioni ambientali.

Il caso Fukushima: come sono state trattate le acque contaminate?

Nel caso della centrale nucleare giapponese di Fukushima, la presenza di risorsa idrica contaminata è dovuta allo tsunami che, nel 2011, colpendo le coste del Giappone causò la fusione parziale dei noccioli presenti in tre diversi reattori dell’impianto. Per riuscire a raffreddare le barre di combustibile, dopo l’incidente sono stati costruiti grandi serbatoi all’interno dei quali è stata gettata una consistente quantità d’acqua, rinnovata periodicamente per far sì che il combustibile si raffreddasse definitivamente. Il contatto dell’acqua con le sostanze rilasciate dai reattori ha fatto sì che questa fosse contaminata ma, essendo racchiusa nei serbatoi, non ha rappresentato in questi anni un problema. Almeno fino al 2022, quando questi hanno esaurito lo spazio a loro disposizione ed è stato quindi cercata una soluzione alternativa per lo smaltimento delle acque ormai radioattive.

Sebbene non esista ancora un piano preciso su come avverrà la dispersione, sappiamo che la risorsa idrica che verrà rilasciata è stata trattata con la tecnologia ALPS, una soluzione che permette di rimuovere parte delle sostanze radioattive presenti in essa.

Che cosa è l’Advanced Liquid Processing System?

L’ALPS (Advanced Liquid Processing System) è un metodo avanzato di trattamento, spesso utilizzato per lo smaltimento delle acque nelle centrali nucleari e si compone, generalmente, di quattro fasi:

  1. Coagulazione e precipitazione – verranno aggiunti reagenti chimici all’acqua contaminata per favorire l’aggregazione e la formazione di particelle più grandi che si depositeranno sul fondo del serbatoio, attraverso un processo di sedimentazione o decantazione.
  2. Filtrazione – dopo il processo di coagulazione e precipitazione, la procedura seguirà con la tecnica di filtrazione per rimuovere le particelle ancora presenti.
  3. Scambio ionico – verrà, quindi, utilizzato un materiale di scambio ionico per catturare e trattenere specifici isotopi radioattivi, riuscendo a separare i radionuclidi dall’acqua.
  4. Concentrazione – dopo la separazione, l’acqua trattata è sottoposta a un processo di concentrazione per ridurre il volume complessivo.

Per conoscere i dettagli stabiliti da IAEA: iaea.org

Una tecnologia che imita la natura: l’intervista a Green Independence

Green Independence

E se grazie all’innovazione tecnologica fosse possibile riprodurre una “foglia artificiale” che riesca ad apportare gli stessi contributi, ma su grande scala? A questo si ispira il progetto “New Artificial Leaf” di Green Independence, una startup innovativa che proprio nelle foglie ha trovato la sua ispirazione.

Con Egato 4 Latina abbiamo intervistato i due fondatori Marta Pisani, marketing e open innovation expert, COO & CMO, e Alessandro Monticelli, ingegnere meccanico e supply chain expert, CTO & CEO, per indagare come Green Independence sia riuscita a “imitare la natura”.

Da dove nasce l’idea di Green Independence?

Green Independence (GI) nasce nel 2020 ma ha alle sue spalle dieci anni di ricerca e sviluppo in collaborazione con il Politecnico di Torino. L’idea tecnologica alla base del progetto di GI, la New Artificial Leaf (NAL), nasce infatti durante il percorso di studi di Alessandro tra il Politecnico di Torino e l’University of Illinois a Chicago, dove ha prodotto due tesi riguardanti proprio la scienza alla base di NAL.

Il vostro segreto per produrre energia e purificare le acque è “imitare la natura”: ma come funziona la vostra tecnologia?

NAL è un pannello solare evoluto e multifunzionale che lavora proprio come una foglia: purifica acque di scarto (o acque marine) e produce idrogeno verde in maniera totalmente indipendente dalla rete elettrica.

In altre parole: partiamo da un pannello fotovoltaico classico che, in media, ha circa il 20% di efficienza (quindi per ogni kW di potenza solare assorbita, vengono prodotti circa 200W di potenza elettrica); il restante 80% viene sprecato sotto forma di calore dissipato. Noi sfruttiamo questo calore dissipato per purificare acque di scarto o dissalare acque marine, fornendo al contempo energia elettrica. Questo sistema, noto come Solar-Water Purification Module (o S-WPM, uno dei due moduli che compongono la NAL), offre un’alternativa più sostenibile al sistema di Reverse Osmosis per desalinizzare le acque marine, in quanto non presenta il problema della salamoia, prodotto di scarto del Reverse Osmosis pericoloso per l’ambiente marino.

L’altro modulo che compone la NAL è l’Electrochemical Module (o ECM) ovvero il modulo adibito alla produzione di idrogeno. Quando il pannello fotovoltaico produce energia elettrica che non viene usata immediatamente, il modulo trasforma l’elettricità in eccesso in idrogeno verde direttamente all’interno del pannello fotovoltaico, senza necessità di energia elettrica proveniente dalla rete e senza bisogno di continua sorveglianza o manutenzione eccessiva. La NAL è perfetta per la produzione decentralizzata di idrogeno, risolvendo due dei problemi principali per la diffusione e l’utilizzo dell’idrogeno verde: costo di produzione e accessibilità.

Che cosa intendiamo con “idrogeno verde” e come è possibile ottenerlo dall’acqua?

Il processo di produzione dell’idrogeno verde avviene tramite scissione dell’acqua in idrogeno e ossigeno. Viene denominato “verde” perché l’energia utilizzata viene prodotta tramite fonti rinnovabili, nel nostro caso il sole. La peculiarità della nostra tecnologia è il mini-elettrolizzatore integrato nel pannello, all’interno del quale avviene la reazione. Questo utilizza materiali e componenti a bassissimo costo e, inoltre, lavora a basse pressioni e basse temperature: è infatti un dispositivo che non necessita di manutenzioni particolari o di una sorveglianza attiva e costante e per questo può essere installato non solo in ambiente industriale ma anche lungo le infrastrutture e, in futuro, si spera anche sui tetti delle nostre case.

È quindi un tipo di tecnologia pensata anche in funzione di una copertura domestica?

Considerando che non richieda una sorveglianza o una manutenzione continua, la New Artificial Leaf sarà adatta a tutti i tipi di applicazioni. Le prime installazioni saranno comunque di tipo industriale, sia per una questione di domanda – esistono già realtà che utilizzano idrogeno e/o che devono affrontare una transizione energetica da fonti carbon fossili a fonti rinnovabili: La NAL è perfetta per accompagnare questa transizione -, sia per una questione normativa – ad oggi la normativa sulla produzione/utilizzo dell’idrogeno al di fuori del comparto industriale non è ancora chiara.

Grazie a questa tecnica quanta acqua siete riusciti a recuperare?

Le stime di performance a completamento dello sviluppo sono di circa 1 L/m2 di acqua purificata prodotta ogni ora. Queste stime di performance sono state validate da studi fatti grazie al supporto dei team di ricerca del Politecnico di Torino.

La riqualificazione del Canale delle Acque Medie di Latina: il progetto dell’Università La Sapienza

La Piana Pontina si dimostra essere particolarmente vulnerabile a modifiche del ciclo idrologico e all’innalzamento del livello marino. Questo è dovuto principalmente alla sua collocazione e struttura morfologica. Tutto ciò può generare fenomeni come la salinizzazione dei corpi idrici sotterranei o il degrado di quelli superficiali. Per questo motivo l’Università La Sapienza si è impegnata in attività di ricerca, dottorati e tirocini su tematiche dell’acqua. L’iniziativa rivolta al Canale delle Acque Medie di Latina rappresenta un esempio di questo impegno.

Noi di Egato 4 Latina abbiamo intervistato Francesco Cioffi e Alberto Budoni, entrambi professori associati presso il Dipartimento di ingegneria Civile, Edile e Ambientale dell’Università di Roma La Sapienza, che con il Gruppo di lavoro del Ce.R.S.I.Te.S hanno sviluppato e dato vita al progetto.

Come nasce la scelta di riqualificare il Canale delle Acque Medie?

L’iniziativa nasce nell’ambito del Progetto Upper, finanziato dall’Unione Europea, del bando Urban Innovative Actions iniziato nell’autunno del 2019 e terminato nell’agosto 2023.
Il progetto ha come capofila il Comune di Latina con la partecipazione di diversi partner tra cui il Ce.R.S.I.Te.S., Centro di ricerca e servizi che gestisce il Polo di Latina di Sapienza Università di Roma.

La scelta di agire sul Canale delle Acque medie è dovuta all’esclusione di questo dai siti scelti per un rinnovamento: purtroppo, le difficoltà createsi prima dal Covid e poi dal rincaro dei prezzi delle opere pubbliche hanno indotto il Comune di Latina a restringere i siti dimostrativi su cui intervenire entro agosto 2023. Per i siti esclusi è stato rimandato l’intervento a fasi successive, ovvero al momento in cui sarebbe stato possibile reperire dei fondi appositi.

Per questo motivo in nostro Gruppo di lavoro, in accordo con il Comune, ha proposto di sviluppare un progetto che utilizzasse le aree Upper come innesco di un processo di riqualificazione più ampio, basato sull’ipotesi di un parco urbano delineato anche in riferimento alle iniziative promosse da parte di comitati ed associazioni di cittadini e abitanti dei luoghi.

Perché tra i diversi siti lasciati in sospeso avete scelto proprio il Canale delle Acque Medie?

Il Canale delle Acque medie è un apparato progettato negli anni Trenta. Questo è stato costruito prendendo in considerazione i livelli di pioggia massima (che, ai tempi, risultavano essere quelli registrati nel 1903). Ciò che ne è risultato è però una sezione sottostimata rispetto ai possibili eventi estremi idrologici che hanno interessato il canale. Per esempio, già nel febbraio 1942 il livello di massima piena fu superato di 1 metro con cospicui allagamenti tra Latina e Rio Martino. 

Fra gli eventi alluvionali che hanno interessato il Canale va inoltre menzionato l’evento dell’8 Novembre 2014 che ha colpito i quartieri Gionchetto e Pantanaccio.  Questi, posizionati sopra un’area originariamente adibita a vasca d’espansione idraulica del Canale delle Acque Medie, ancora oggi vedono un elevato rischio di inondazione.

Va anche osservato che altri fenomeni possono rendere ancora più elevato il rischio da alluvione: ne sono un esempio l’innalzamento del livello marino o la possibile intensificazione degli eventi di pioggia estrema dovuti all’aumento globale della temperatura.

Quindi l’intervento sarà volto a eliminare eventuali rischi idrogeologici?

Si, uno degli obiettivi del progetto è proprio la mitigazione dei rischi dovuti ad eventi idrologici estremi, sia di tipo alluvionale sia conseguenti a siccità.  L’area interessata è infatti particolarmente vulnerabile a entrambi questi rischi. Il problema è quello di pensare soluzioni progettuali che consentano di attenuare un tipo di rischio, per esempio quello alluvionale, senza produrre un incremento non voluto del rischio di altro tipo, per esempio siccità. Per questo sono state previste aree di espansioni per laminare le piene del canale in modo da utilizzarle per la ricarica della falda.

Quali saranno gli altri obiettivi ambientali?

Gli obiettivi sono numerosi: difendere le aree urbane potenzialmente a rischio di alluvione come, ad esempio, i quartieri del Quartaccio e del Pantanaccio; consentire il recupero di aree naturalistiche ad uso ricreativo; rendere più resiliente il sistema idrico davanti a eventi di siccità; prevenire l’aggravarsi dell’isola di calore e contribuire alla salvaguardia della biodiversità; migliorare la qualità dell’aria e dell’acqua e diminuire l’inquinamento del suolo.

E per quanto riguarda il miglioramento della qualità delle acque?

Il progetto non è finalizzato specificatamente al miglioramento della qualità delle acque. Questo rimane comunque un importante aspetto che andrebbe tenuto in conto per futuri interventi. Per esempio, l’individuazione di scarichi abusivi e acque non trattate dovrebbe essere perseguita con determinazione.  Ciò nonostante, alcune soluzioni previste per la difesa idraulica dalle inondazioni possono anche contribuire al miglioramento della qualità delle acque.

Infatti il risanamento del Canale delle Acque Medie ha un obiettivo sociale, oltre che ambientale: la fruizione da parte dell’intera cittadinanza.

Il progetto vede il suo punto di forza proprio nella sistemazione delle sponde del canale per una valorizzazione sia ambientale che sociale. Questo favorirà il miglioramento degli habitat per la fauna, offrendo allo stesso tempo percorsi di fruizione ciclopedonale e di sosta, comprensivi di una struttura per il birdwatching.

Inoltre, l’iniziativa permetterà lo sviluppo di start-up dedicate alla produzione di piante e alla fornitura di servizi alla popolazione. Questo significherà, infatti, ridurre l’esclusione sociale e il rischio di povertà di persone marginalizzate attraverso il programma di formazione e inserimento lavorativo per cittadini in situazioni di vulnerabilità.

I cittadini sono quindi protagonisti della progettazione e della gestione delle aree verdi urbane coinvolte nel progetto. Un obiettivo possibile grazie agli UPPER City Lab, laboratori di co-progettazione, e alle piattaforme web interattive.

Ci sono già dei risultati tangibili ottenuti grazie al progetto?

In termini di trasformazioni fisiche non ancora, ma il progetto ha contribuito a delineare una programmazione di opere pubbliche su cui il Comune potrà impegnarsi reperendo i finanziamenti necessari. Nello stesso tempo, gli abitanti hanno a disposizione delle proposte di trasformazione su cui proseguire la maturazione di una coscienza di luogo, continuare a sviluppare l’attività di coprogettazione e, in prospettiva, diventare soggetti propositivi di patti di collaborazione con il Comune.

Un grazie ai collaboratori del gruppo di lavoro del Ce.R.S.I.Te.S.: Giuseppe Bonifazi; Nice Canari; Mario Giannini; Mauro Iberite; Paolo Marzano; Giovanni Mastrobuoni; Luigi Onori; Andrea Tardio; Gianluca Vavoli; Sergio Zerunian.

Il futuro dell’agricoltura con la tecnologia idroponica: l’intervista a Edera Farm

Il settore agricolo registra l’utilizzo di circa il 70% delle risorse idriche mondiali, diventando così il primo per consumo di acqua. Sviluppare e investire su tecnologie in grado di ridurne la dispersione diventa quindi una sfida globale. Edera Farm rappresenta un esempio di come si possano ripensare le tecniche produttive attraverso quella che viene conosciuta come “idroponica”. Con Egato 4 Latina abbiamo intervistato il suo fondatore, Alessio Saccocio, per conoscere la storia della start-up e la sua evoluzione.

Edera Farm nasce nel 2021, ma la sua storia comincia prima?

Si. Il progetto nasce sul territorio di Latina nel 2018 con Idroluppolo, la prima start-up europea a produrre luppoli attraverso la tecnologia idroponica. Visto il mercato italiano, in forte crescita durante quegli anni, il nostro obiettivo era quello di trovare un modo di produrre un luppolo (che allora era per il 97% importato) sul nostro territorio in maniera sostenibile. Io e quello che allora era il mio socio, Carlo Muzzi, in quel periodo ricercatore universitario di Tor Vergata, abbiamo iniziato la sperimentazione sulla produzione a idroponica del luppolo grazie alla vittoria di un bando della Regione Lazio, il quale ci ha permesso di noleggiare la prima serra a Terracina.

Da qua siamo cresciuti, realizzando tra i 4 e i 5 impianti in giro per l’Italia e affinando le tecniche di lavorazione sia al chiuso che all’aperto. Ed è così che nell’agosto del 2021 abbiamo ricevuto il primo finanziamento europeo Venture Capital dai nostri attuali partner, Ulixess: loro hanno apprezzato le nostre tecnologie e ci hanno proposto di trasformare la nostra start-up in Edera Farm, utilizzando quindi gli impianti idroponici per tutte le tipologie di piante.

Dopo il finanziamento si sono inoltre prospettate molte opportunità di collaborazione. Una di queste è avvenuta con Siad, Società Italiana Acetilene, grazie alla quale stiamo lavorando per brevettare gas alternativi che possano ridurre l’utilizzo di pesticidi in agricoltura. Inoltre, con l’Università della Sapienza stiamo studiando un modo per utilizzare tali gas per aumentare le difese della pianta.

E poi c’è il tuo brevetto Alessio?

Esattamente. Il REC system, ovvero un sistema innovativo per la produzione di piante a grande e media radicazione. Il focus è quello di andare a sostituire i classici panetti di substrato utilizzati nella tecnologia a idroponica, riducendo quindi gli sprechi dello stesso grazie all’utilizzo della sola acqua.

Ma in cosa consiste la tecnologia idroponica?

L’idroponica è un tipo di tecnologia che permette di coltivare piante riducendo il consumo di acqua e di agrofarmaci. Con essa, infatti, la terra viene sostituita da un substrato di acqua addizionata a nutrienti e ossigeno che circolano nelle radici della pianta permettendo la sua crescita. 
L’idroponica più utilizzata è quella nata negli anni Settanta: questa utilizza 50-60 litri di substrato, il quale non viene però recuperato. La tipologia di idroponica da noi proposta prevede, invece, che le radici crescano direttamente in acqua senza l’impiego di una massiccia quantità di substrato: si sfruttano infatti solo 6 litri, risparmiandone quindi l’80% rispetto alle tecnologie tradizionali.

E grazie alla vostra innovazione quale impatto avete avuto sul risparmio idrico?

Per la produzione di foglia verde (piante aromatiche, basilico e tutto ciò che non fiorisce) abbiamo registrato un 97% di acqua risparmiata in ambiente indoor – controllando quindi temperatura, umidità e luminosità. In ambiente outdoor registriamo tra l’80 e l’85% di acqua risparmiata, anche perché sfruttiamo il sistema a ricircolo che ci permette di riutilizzare l’acqua in eccesso che viene recuperata, ritrattata e immessa nel sistema. Per quanto riguarda invece le piante grandi, quelle da frutto, siamo intorno al 60-65% di acqua risparmiata rispetto alla coltura in campo.

La questione del risparmio e recupero delle acque è centrale: l’idroponica può infatti ridurne l’utilizzo del 97% rispetto all’agricoltura tradizionale. Proprio per questo è importante che questa tecnologia si sviluppi e cresca nel suo utilizzo. Finora in Italia ha rappresentato il fanalino di coda vista la buona qualità del terreno. L’Unione Europea si sta comunque muovendo per evolvere le classiche modalità di agricoltura. E proprio l’Unione Europea ha dato vita a dei bandi chiamati Edogreen per portare queste tecniche all’interno delle scuole.

Anche Edera Farm partecipa a questo progetto coinvolgendo gli studenti italiani.

Si. Stiamo realizzando due impianti idroponici didattici in Sicilia, uno nella provincia di Bari e l’altro ad Isernia. Noi insegneremo ai professori come utilizzare questi tipi di impianti e loro trasmetteranno le conoscenze apprese ai loro alunni.

Quindi offrite consulenza per aziende e agricoltori e didattica per la scuola. Ma c’è anche possibilità di contattarvi per soluzioni domestiche?

I piccoli impianti realizzati per le scuole potrebbero essere in realtà soluzioni ottime anche per l’uso domestico. Ad esempio, per le insalate abbiamo progettato impianti che possono produrre dai trenta ai cinquanta raccolti al mese. Abbiamo, inoltre, impianti che producono frutti in piccole quantità. Per il futuro abbiamo quindi programmato di aprirci al mercato del privato, facendo sì che le famiglie possano acquistare questi impianti per produrre i propri raccolti sul balcone, in casa o nel giardino. Tra l’altro lavoreremo anche su dei videocorsi: sarà quindi possibile comprare le nostre tecnologie e avere un video di spiegazione su come produrre in casa i propri ortaggi.

Risparmiare 160 litri di acqua con un lavaggio? L’intervista a Wash Out, l’azienda di Car Care che offre un servizio waterless

Egato 4 Latina ha scelto di raccontare, attraverso la sua rubrica “Acqua e innovazione”, la storia di coloro che ogni giorno operano per permettere la salvaguarda della risorsa idrica grazie a un importante risparmio applicato alla propria attività. Un progetto che permetterà all’Ente di incontrare aziende virtuose, innovatori o start-upper che hanno fatto della sostenibilità il loro motto.

Tra questi anche Wash Out, una start-up nata nel 2016 con l’obiettivo di ridurre l’utilizzo di acqua nel cosiddetto “Car Care”, cioè nella pulizia di automobili private o vetture aziendali. Un impegno che ha raggiunto molte città italiane, fino a sbarcare in Francia, contribuendo a salvare milioni di litri di acqua in pochi anni. Egato 4 Latina ha intervistato intervistato uno dei tre fondatori:

Da dove nasce l’idea di Wash Out?

Wash Out nasce nel 2016 sull’iniziativa di tre fondatori: all’estero per lavoro, ci accorgiamo di una particolare tipologia di lavaggio waterless con prodotti senz’acqua nei parcheggi dei centri commerciali. Decidiamo così di evolvere l’idea in chiave digitale e strutturare il business in Italia, in un mercato all’epoca fermo, puntando sulle potenzialità eco-sostenibili del servizio.
Il percorso di crescita è passato poi dall’incubatore dell’Università Bocconi di Milano e dalla vittoria nel 2018 di B-Heroes (docu-serie dedicata alle start-up innovative Made in Italy); da lì, i primi contatti con Telepass e relativi round di investimento fino ad arrivare all’acquisizione nel 2020, perfettamente in linea con la strategia “Safe & Clean”, dell’azienda di mobilità.

Ma che cosa significa “lavaggio waterless”?

Può sembrare un controsenso, invece è proprio così: con “lavaggio waterless” si intende un tipo di lavaggio con assenza di acqua, la quale viene sostituita da prodotti specifici e, nel nostro caso, attenti al rispetto dell’ambiente.

Possiamo quindi definire il vostro come un servizio di “Car Care” atipico. Ma come funziona esattamente?

Si, il nostro è un servizio di lavaggio e cura completa a domicilio del veicolo (auto e moto), che si rivolge ad utenti privati e clienti del mondo business (dealer e concessionari, flotte aziendali, car sharing). Ciò che lo caratterizza è proprio l’assenza di acqua: utilizziamo, infatti, prodotti waterless specifici per ogni superficie (dalla carrozzeria all’abitacolo fino ai vetri), che fanno “venire a galla” lo sporco, il quale viene poi ripulito con un panno antigraffio in microfibra. La novità passa anche nel digitale: il consumatore potrà infatti prenotare accedendo all’app presente nello store.
Le nostre parole chiave sono quindi innovazione, specializzazione ed eco-sostenibilità, grazie all’approccio waterless e ai nostri prodotti specifici senz’acqua.

Il progetto è sbarcato in altre città italiane, addirittura all’estero: quanti “Washer” lavorano con voi?

Siamo nati nel 2016 a Milano ma ben presto ci siamo ingranditi ed espansi: ad oggi siamo presenti anche a Roma, Torino, Firenze, Bologna e, da inizio 2022, siamo sbarcati sul mercato francese a Parigi, Lione e Nizza.
Il nostro Team si compone di oltre 30 persone nelle varie funzioni aziendali ed oltre 100 Washer, i professionisti specializzati e da noi formati, che erogano il servizio.

Tra i consigli dati al cittadino da Egato 4 Latina, uno dei principali è quello di evitare il lavaggio “casalingo” della propria auto per non sprecare acqua potabile. Ma il vostro tipo di servizio permette un risparmio anche maggiore di quello apportato da un autolavaggio?

Certamente! Il nostro servizio waterless consente un risparmio di circa 160 litri d’acqua per lavaggio, dati calcolati grazie a una ricerca in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Oltre all’aspetto idrico, contribuiamo a ridurre l’impatto in termini di anidride carbonica emessa: grazie ai minori spostamenti dei clienti verso i tradizionali autolavaggi, solo nel 2021 abbiamo “salvato” oltre 6.800 kg di CO2 nelle città in cui siamo attivi.

Approssimativamente, quanta acqua avete risparmiato negli anni?

Nel 2021 abbiamo contribuito a “salvare” oltre 26 milioni di litri d’acqua.
Il numero è in costante aumento, basti pensare che nel 2020 erano stati circa 15 milioni. Riuscendo quindi a espandere la nostra rivoluzione del Car Care in altri paesi potremmo davvero risparmiare un elevata quantità d’acqua!

I volti di Wash Out

Irrigazione con acque reflue depurate: dall’Emilia-Romagna il progetto che ricoprirà il 70% del fabbisogno irriguo regionale

Utilizzo delle acque reflue nel mondo agricolo: il progetto di ENEA riuscirà a soddisfare il 70% del fabbisogno idrico irriguo dell’Emilia-Romagna, riducendo il costo dei concimi del 30%.

Utilizzare le acque reflue depurate per irrigare e fertilizzare i campi. È il risultato ottenuto dalle sperimentazioni condotte da ENEA – Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile – in collaborazione con il gruppo Hera e l’Università di bologna.

L’obiettivo del progetto, cofinanziato dalla Regione Emilia-Romagna e dal Fondo per lo Sviluppo e la Coesione (FSC), è stato quello di migliorare la gestione delle acque depurate in ottica di economia circolare, nonché di ridurre i consumi di acqua potabile nello svolgimento delle attività aziendali.

La sperimentazione, durata circa due anni, è stata eseguita presso il depuratore di Cesena. In questo è stato realizzato un prototipo automatizzato per il monitoraggio ed il controllo della qualità degli effluenti ai fini di un loro riutilizzo in un terreno agricolo sperimentale.

La centralina di controllo e automazione ospitata dal centro di Cesena è stata progettata per essere in grado di gestire e ottimizzare il riuso delle acque, le quali sono state trattate in funzione alle esigenze idriche e nutrizionali delle colture nel campo.

Il progetto si è rivelato molto promettente, mostrando la potenziale possibilità di soddisfare fino al 70% del fabbisogno idrico irriguo regionale. Ma non solo: grazie all’utilizzo delle acque reflue depurate, contenenti sostanze nutritive necessarie alla crescita delle piante, si è ottenuto un risparmio del 30% nei costi dei concimi senza registrare alcun danno alle coltivazioni. È stata infatti riscontrata una totale assenza di contaminazione di Escherichia coli o di qualsiasi altra carica batterica tra i germogli e i frutti.
Infine, anche il consumo di acqua potabile per l’utilizzo aziendale è stato ridotto del 10%.

“I risultati ottenuti evidenziano l’applicabilità della filiera tecnologica, sviluppata in forma prototipale nell’ambito del progetto a tutti gli impianti di depurazione per garantire una fonte idrica non convenzionale che sia sicura, economicamente conveniente ed in grado di fornire elementi nutrienti alle colture, in linea con i nuovi indirizzi comunitari in vigore dal 2023. – afferma il coordinatore del progetto Luigi Petta e responsabile del Laboratorio di Tecnologie per l’uso e gestione efficiente di acqua e reflui dell’agenzia ENEA – Tutto ciò ha avuto l’obiettivo di promuovere l’implementazione di best practices a beneficio degli stakeholder di filiera, dai gestori d’impianto ai consorzi di bonifica fino al settore dell’automazione, controllo e misurazione”.

Il laboratorio idroponico del Santa Chiara Lab: una soluzione innovativa e sostenibile nel campo agroalimentare

L’università di Siena in collaborazione con il Ministero dell’Università e della Ricerca inaugura un laboratorio idroponico per individuare soluzioni sostenibili ed attente allo spreco idrico.

Il Santa Chiara Lab dell’Università di Siena, in collaborazione con il Ministero dell’Università e della Ricerca, ha inaugurato il suo primo laboratorio idroponico. Si tratta di un innovativo sistema di indoor farming adattato all’interno di una ex-sala riunioni. Il laboratorio sarà luogo di didattica e ricerca all’interno del quale verranno individuate soluzioni sostenibili e condivise per l’agroalimentare in linea con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 dell’ONU.

Le coltivazioni idroponiche sono sistemi di indoor farming che permettono di coltivare piante da frutto e da foglia riducendo il consumo di acqua e di agrofarmaci. Con esse, infatti, la terra viene sostituita da un substrato inerte di acqua addizionata a nutrienti ed ossigeno che circolano nelle radici della pianta permettendo la sua crescita. Con questo percorso di maturazione interagiscono appropriate tecnologie necessarie a rendere la serra ospitale per le piante: esse controllano la luce e la temperatura, componenti fondamentali per la sua salute e crescita.

L’idroponica permette un risparmio di acqua non banale grazie al recupero e al riutilizzo del flusso idrico, il quale viene raccolto dopo l’utilizzo e riciclato per un nuovo ciclo di irrigazione. Razionalizzato è anche l’impiego dei nutrimenti erogati alle piante, perché tutto viene misurato e controllato con l’obiettivo di fornire solo lo stretto necessario e mai di più.

Dopo varie sperimentazioni in campo agricolo, l’idroponica ha ricavato sempre più successo sia in ambito industriale che domestico. In particolar modo, questa si è rivelata un’ottima possibilità per le grandi città dove mancano i terreni utilizzabili per la coltivazione di terreni. Oltre a ciò, risulta essere un vantaggio anche per gli agricoltori: con la coltivazione idroponica, infatti, la stagionalità della frutta e della verdura viene a mancare, potendo così produrre in ogni periodo dell’anno senza avere il bisogno d’importare i prodotti.

Il laboratorio inaugurato dal Santa Chiara Lab, oltre ad essere uno spazio dedicato alla sperimentazione di tecniche idroponiche su culture indoor, è anche un importante strumento didattico. Come ha dichiarato Francesco Frati, rettore dell’Università di Siena, «la creazione di questo innovativo laboratorio idroponico rappresenta un ulteriore passo in avanti nella configurazione del centro Santa Chiara Lab dell’Università di Siena come luogo di co-creazione e progettazione di soluzioni condivise dove studenti, agronomi, tecnici e ricercatori potranno toccare con mano e conoscere le nuove progettualità in campo agrifood a beneficio della ricerca e dello sviluppo agroalimentare in ottica di sviluppo sostenibile».